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Carmelo Mezzasalma
La parola alta della vita
Cultura, anima, fede nel postmoderno

Isbn 978-88-87699-88-3

2007, pp. 240 – € 16,00

Nello spirito della ricerca che ne è all'origine, questo volume di Carmelo Mezzasalma, superiore della Comunità di San Leolino e docente di Letteratura poetica e drammatica presso l'Istituto di Alti Studi Musicali "L. Boccherini" di Lucca, costituisce una preziosa testimonianza di lettura e interpretazione delle dinamiche culturali e spirituali del nostro tempo. Un percorso che incrocia alcune delle sfide cruciali del panorama contemporaneo, in una prospettiva di interrogazione sul senso del nostro presente, e alla ricerca di una direzione in cui orientarci in un possibile impegno a favore della cultura e della civiltà. Un percorso assai ricco e variegato, tra sociologia e letteratura, filosofia e teologia, arte e cinema, conuna particolare attenzione a quell'eredità cristiana che è, allo stesso tempo, un dono e un compito per la nostra tradizione occidentale.
Il volume è strutturato in tre sezioni:
L'inverno del nostro travaglio: una lettura critica del nostro tempo
Fede, cultura ed evangelizzazione: un contributo al dibattito sul rapporto tra fede e cultura
Sulla barca di Pietro: alcuni momenti della vita della Chiesa contemporanea

Il volume è stato realizzato in occasione del X Anniversario della nascita della Comunità di San Leolino (1997-2007) e in ricordo dei venti anni di vita di «Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento», fondata nel dicembre 1985.

 

 

Invito alla lettura


In un prezioso studio sull’escatologia cristiana, riprendendo alcune considerazioni di Pavel Florenskij, il cardinale Tomás Spidlík recentemente riconosceva che «sia la santità che la genialità esigono la nostra stima. Il poeta Puskin e il santo taumaturgo Serafino di Sarov erano contemporanei. Non sarebbe utile sostituire l’uno con l’altro: la Provvidenza li ha mandati insieme» (“Maranathà”. La vita dopo la morte, Ed. Lipa, Roma 2007, p. 68). In effetti, quando ci si avventura in una riflessione sul rapporto tra fede e cultura, c’è sempre il rischio di arrivare a trarre l’errata conclusione secondo la quale il cristianesimo potrebbe o addirittura dovrebbe “servirsi della cultura”. La tentazione di colonizzare la cultura, in altre parole, è sempre in agguato, e forse oggi più di qualche anno fa, in un clima di improbabile e anacronistica riaffermazione del primato del sacro.
Poiché, paradossalmente, è proprio quando comincia a rendersi conto di esser soltanto tollerata, di essere, cioè, un corpo estraneo utilizzato a seconda dei bisogni, che la cultura se ne va, per così dire, per la sua strada, e diventa rapidamente autonoma, secolarizzata e atea. E verrebbe da pensare che il deserto culturale e spirituale in cui ci troviamo a vivere sia, per non poca parte, anche il prodotto di questa presunzione della religione nei confronti della cultura, proprio quella frattura tra Vangelo e cultura che così profeticamente Paolo VI aveva intuito già nel 1973. «Bisogna ristabilire l’amicizia tra la Chiesa e gli artisti», auspicava papa Montini parlando agli artisti raccolti nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964. E indicava proprio in una pagina del documento conciliare sulla liturgia Sacrosanctum Concilium, da poco approvato (4 dicembre 1963), il «grande atto della nuova alleanza con l’artista… il patto di riconciliazione e di rinascita dell’arte religiosa, in seno alla Chiesa cattolica».
La cultura, in altri termini, esige l’attenzione e il rispetto dovuti a ogni genuina espressione della creatività umana, proprio come ci ha invitato a fare il Concilio Vaticano II, che della cultura ha offerto una delle definizioni più acute e illuminanti, tracciando inoltre un compito chiaro e assai preciso per i discepoli di Cristo di qualsiasi latitudine ed estrazione: «I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, quali si esprimono mediante la cultura» (Gaudium et Spes, n. 62). Un compito decisamente sapienziale, e che suppone un continuo esercizio di quel discernimento spirituale che è, letteralmente, il dono di saper rintracciare l’azione dello Spirito santo ovunque e comunque, quello Spirito che, notoriamente, soffia dove vuole!
Queste e altre considerazioni ci si affacciavano alla mente mentre rileggevamo gli Editoriali che hanno accompagnato gli ormai più di trenta numeri della nostra rivista «Feeria. Rivista per un dialogo tra esodo e avvento». Giunti, infatti, oltre la significativa soglia dei venti anni di vita della rivista, e mentre la nostra Comunità di San Leolino ricorda i suoi dieci anni di vita nell’omonima Pieve nel Chianti, abbiamo creduto opportuno dare alla luce un’antologia di questi testi, facendone contemporaneamente conoscere anche la vera paternità.
Certo, si tratta di scritti inevitabilmente legati a eventi emblematici di questi anni, “tra fede e cultura”, appunto, e potrebbero dunque apparire storicamente connotati. In realtà, essi costituiscono una testimonianza proprio di quello sforzo di discernimento spirituale e culturale cui facevamo riferimento: un orientarsi faticosamente nella complessità del postmoderno, con le sue mode e le sue derive, i suoi aneliti profondi e le sue contraddizioni. E con, al centro, l’attenzione a quell’anima – vale a dire la sensibilità e la creatività della persona umana – che appare oggi la vittima eccellente di un mondo quasi interamente votato a logiche di potere e di successo a tutti i costi.
Per molti aspetti, la presente pubblicazione rappresenta anche un primo contributo alla comprensione e all’interpretazione del cammino e dell’identità della rivista «Feeria», di cui gli editoriali hanno sempre costituito la chiave di lettura e la prospettiva di analisi. Nata nel dicembre 1985 con un altro formato e un altro sottotitolo («Feeria. Un foglio per una giovane letteratura»), la rivista è andata progressivamente precisando la propria fisionomia e il proprio compito esplicitando quel «dialogo tra esodo e avvento» indicato nel nuovo sottotitolo: tornare sempre di nuovo a far comunicare, nell’humus vivo della cultura, l’esodo della condizione umana e della sua ricerca di senso, con l’avvento della rivelazione cristiana, quella parola alta della vita, che la illumina e la orienta verso la salvezza e la pace.
Sì, a distanza di anni, e potendola riaccostare nella sua completezza e unitarietà, la stesura di questi editoriali – che abbiamo creduto opportuno presentare suddivisi secondo una struttura tematica in tre parti, rinunciando, per ragioni di ampiezza del materiale, a una pubblicazione integrale – ci appare davvero come un esercizio del sacerdozio regale e profetico proprio del battesimo, un ministero tipicamente cristiano, dunque, e che concretamente, al di là di tante retoriche anche ecclesiali, tenta di rispondere all’appello paolino «non spegnete lo Spirito, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,19.21). Poiché, davvero, ed è ancora il cardinal Spidlík ad affermarlo, la cultura ha il diritto di essere considerata «una manifestazione dello Spirito»: «a modo suo, infatti, la cultura raggiunge la liturgia, fa intendere la “liturgia cosmica”, poiché la cultura diventa dossologia» (ivi, p. 69), si fa, cioè, manifestazione della gloria stessa di Dio.
Il compito, per altro, non si arresterebbe qui, e proprio per amore e servizio alla cultura, la quale, in quanto manifestazione propria di un popolo o di una civiltà, finisce per decadere e morire nel momento in cui quel popolo o quella civiltà scompaiono. E c’è un solo modo per aprire alla cultura – ma meglio sarebbe dire, con Paolo VI, alle culture – la possibilità di un futuro, e dunque di una fecondità più grande e davvero a misura dello Spirito che le ha suscitate: quello di dare loro un senso cristologico, di coglierne e rivelarne il senso ultimo, poiché l’unico fine, l’unico oggetto delle culture è l’uomo, e l’uomo nella sua profondità è l’Uomo, l’Uomo perfetto rivelato a noi in Gesù Cristo. Così, conclude ancora il cardinal Spidlík, «dare a una cultura il suo senso cristologico è l’unico modo per salvarla» (ivi, p. 70).
Ci auguriamo, dunque, che la lettura di questo volume possa esser davvero un aiuto nello sforzo di discernere ciò che è buono ed edifica l’uomo e di realizzarne una sintesi vitale e comunicabile. Sarà così possibile, giorno dopo giorno, tentare di incarnare quel “sogno” in cui Paolo invitava i suoi discepoli a non temere di immergersi nelle tensioni e nelle fatiche della storia e lì «splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15-16).

La Comunità di San Leolino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

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