Carmelo Mezzasalma, Tenete ciò che è buono.
Per un discernimento della cultura contemporanea (Edizioni Feeria 2012)
Una testimonianza di lettura
Gonzaga University in Florence, 8 novembre 2013


Raramente un sottotitolo ha raccolto con tanta sintetica efficacia i temi sensibili di un libro come nel caso di questo saggio di Carmelo Mezzasalma, Tenete ciò che è buono. Per un discernimento della cultura contemporanea (Edizioni Feeria 2012). Discernere e salvare ciò che è buono nella cultura contemporanea è, infatti, intento dichiarato dall'autore a più riprese. Come ben sappiamo, ai nostri giorni in molti si propongono come promotori di cultura nei più vari ambiti e si parla spesso con facilità, per non dire con leggerezza, proprio di “cultura”, o della nostra “contemporaneità”, molto più di rado di “discernimento”.
Ma è nello scavo e nell'interrogazione intorno a questi temi, così apparentemente noti e a portata di mano, che questo contributo di Carmelo Mezzasalma suggerisce molte prospettive inedite, apre nuove “piste di lavoro”. Come un esploratore del profondo, Carmelo Mezzasalma si immerge con l'aiuto dei tanti strumenti che possiede, certo, dalla filosofia alla teologia, dalla sociologia alla psicologia, dalla letteratura alla storia, ma anche lasciando orientare la sua ricerca dalle domande che nascono dalla sua sensibilità umana e dalla sua esperienza di credente. A partire proprio dal concetto di “contemporaneità”, che l'autore insegue o, se si vuole, da cui è, in un certo senso, incalzato e assillato.
Cosa vuol dire essere veramente contemporanei? A prima vista, far parte di questa parte di storia che ci è toccato di vivere e a cui apparteniamo. In realtà, non è così, e ce lo ricorda Carmelo Mezzasalma citando Carlo Maria Martini: “Non siamo tutti veri contemporanei; e questo ha sempre rappresentato un vero fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento”. Siamo, infatti, istintivamente soggetti a una duplice, opposta fuga dalla realtà: verso un mitico passato, tanto più rassicurante quanto più cristallizzato in una forma statica, o verso l'accomodamento passivo al tempo presente, credendo così d'inseguire il futuro al ritmo delle mode del momento (87). Noi non siamo contemporanei se, invece di conoscere il nostro tempo, lo subiamo, ed è quasi inevitabile subire la cultura, quella che Carmelo Mezzasalma, con Albert Camus, chiama, molto efficacemente, “l'aria del tempo”, tanto pervasiva e determinante il nostro modo di pensare e le disposizioni profonde della nostra anima, quanto più la respiriamo senza una distanza critica, o la subiamo “in una sorta di sogno a occhi chiusi” che incanta e inquieta allo stesso tempo (36). In queste condizioni, “non è sempre possibile sentirci contemporanei”, o è difficile esserlo se non ci guida una luce superiore, per “tenere fisso lo sguardo su quel buio, insidioso e imprendibile, entro cui si avvolge ogni esperienza contemporanea... A dispetto dell'enorme cultura che possediamo, tutti i tempi sono, per chi ne sperimenta la contemporaneità, essenzialmente oscuri, contemporaneo è solo chi sa vedere questa oscurità, chi è in grado di pensare o di dire intingendo il pensiero o la penna nella tenebra del presente” (62-63). La tenebra del presente, ecco una delle tante immagini, forse la più dura, fra quelle evocate in questo saggio dove si parla anche di deserto, di palude, di rovine, quando non si ricorre al mito biblico della torre di Babele. Immagini che non sono specchio di un qualche catastrofismo o tantomeno pessimismo dell'autore (categoria, quest'ultima, psicologica e superficiale). Sono immagini, certo, poco rassicuranti, ma non banali allegorie del presente: piuttosto immagini che nascono da questo raro coraggio, questa rara passione dell'autore che sa farsi davvero contemporaneo, dentro la storia, ma per tendere verso un orizzonte che il presente può facilmente offuscare. Vedere le tenebre del presente, in altre parole, è un atto di non-fuga, il desiderio di abitare la storia del nostro tempo, essere veri contemporanei, rispondendo anche alla provocazione del direttore del “Foglio”, Giuliano Ferrara, citato nel libro, e che accusa la Chiesa proprio di essere in fuga dalla contemporaneità e di non sapere parlare all'uomo contemporaneo (29).
In realtà, non si può vivere la fede senza conoscere in profondità il nostro tempo (78), e in questo senso vorrei considerare una seconda parola-chiave del testo: la parola cultura. Il cristiano può vivere un rapporto creativo con il proprio tempo attraverso la cultura, in primo luogo esercitando una critica della cultura, ovvero vigilando davanti alla “sontuosa apparenza della cultura” (51), promossa dagli opinionisti di turno, così come dagli “illuminati filantropi liberali, i decantati avvocati del genere umano” (45), pronti a confermare l'individuo in quanto singolo, emancipato e disponibile a cambiare sempre, come un mutante o un transgender, secondo l'orientamento delle mode e in una spasmodica ricerca del consenso. Non a caso, Carmelo Mezzasalma ricorre a un altro celebre mito, questa volta della tradizione greca, il mito di Tantalo, schiavo di desideri indotti e sempre inattingibili, per descrivere quella diffusa psicologia di massa per la quale, all'illusione dell'onnipotenza narcisistica, a cui tutto è possibile, corrisponde l'impotenza e la solitudine dei singoli, tanto nostalgici di comunità, di relazioni costruttive, quanto incapaci a vivere la dedizione che questo ideale richiede.
In altre parole, Carmelo Mezzasalma mette in risalto il carattere insidioso, ancipite e ambiguo della cultura, che può giungere ad essere “una piaga del nostro tempo” (66), se non è animata da quella che Rosmini chiamava un'intelligenza “amativa”, o amante. Un segno dell'attuale disorientamento culturale si ha nell'agonia della scuola, nel cui ambito si è affermata una vera e propria “ideologia della professionalizzazione” le cui parole d'ordine sono “efficacia”, “competenze”, “eccellenza”, per preparare i giovani a fare la loro parte nel mondo della competizione, perdendo di vista del tutto l'orizzonte di un umanesimo cristiano. La crisi della scuola è anch'essa un segno dei tempi: alla cultura che esalta l'onnipotenza narcisistica, corrisponde la crisi della cultura umanistica che tiene, invece, ben fermo il senso della misura e del limite della nostra condizione umana. Quel senso del limite e della povertà che la cultura vuol farci dimenticare e che non si concilia in alcun modo con l'immagine di un Gesù povero, e che è anzi, nelle parole di Carmelo Mezzasalma, “il grande Mendicante”, che ha vissuto un'unica passione per il Padre e per gli uomini.
Fare cultura da contemporanei significa, allora, vivere la cultura come compito e come missione: “capire il proprio tempo, capire gli uomini che vi vivono dentro, cercare di portarli verso Dio” (87). E questo lo si può fare se si mantiene viva “l'irriducibile alterità del cristianesimo” che legge la realtà attraverso Dio. Così, ritrovare il Dio vero è anche lo sforzo di ritrovare l'uomo e il mondo (60). Nel contesto di un nuovo paganesimo, in cui il cristianesimo rischia di dileguarsi in una silenziosa “apostasia delle masse”, la cultura può guarire la nostra immaginazione malata, esaltando le migliori risorse del genio umano, che dà i suoi frutti migliori proprio quando crea e riflette a partire dall'esperienza umana e dai suoi problemi, nutrendo così la sua memoria e il desiderio di crescere e di migliorarsi, la sua sensibilità per la bellezza, intesa qui come coraggio di “osare la profondità, fuggendo la superficialità”. La fede, in altre parole, può dunque resistere al nuovo paganesimo difendendo e curando una qualità della cultura.
In questo senso, contro quella caricatura dell'intelligenza tutta ripiegata sull'attualità e che alimenta un vero e proprio “deserto della mediocrità” (63), fare cultura da cristiani vuol dire tendere a una vera conoscenza, da intendersi come sapienza del discernimento (59), a partire da quella sapienza umana che già i Greci ci hanno insegnato, nell'arte di distinguere il vero dalle apparenze. Altrimenti ci minaccia quella che il nostro autore chiama la barbarie o la schiavitù del “non saper più distinguere”, verso cui rischiamo di sprofondare ogni volta che la cultura intorno a noi viene, in un modo o nell'altro, degradata. Coltivare la cultura, dunque, come via per difendere la causa dell'uomo e la causa di Dio, mai l'una senza l'altra.
In questa tensione, l'esercizio dell'intelligenza è un continuo decentramento dal proprio io (come afferma papa Bergoglio, che parla anche di “avere un pensiero incompleto, aperto”), un decentramento che ci porta a raggiungere la conoscenza dell'altro e del mondo. Senza conoscenza, infatti, non c'è neanche amore. Questo significa “discernere in Cristo”, per contrastare il rischio sottile del pluralismo, che può indurre a un'apatica acettazione del quotidiano, rinunciando a distinguere e a scegliere. La cultura, dunque, come missione e come compito, spesso crocifisso, di “svegliare se stessi e gli altri dal torpore delle idee a buon mercato o della soddisfazione narcisistica” (103). E trovo qui un'analogia con il compito che Kierkegaard si era scelto, come filosofo e come cristiano, di “mettere difficoltà dappertutto”, contro ogni semplicismo che aderisce in modo acritico alla cultura del tempo. Il mondo umano, nelle sue persone migliori, ci ha dato tanti esempi di genialità, come per esempio i veri scrittori che, come osserva con una bella espressione il nostro autore, sono “abbastanza felici da aver il desiderio di proteggere gli istanti di felicità degli altri” (83). Questa è anche una possibile via per ritrovare, in un mondo sempre più disumanizzante, la “via del cuore”. Il cuore inteso come disposizione stabile verso le cose, che vive una costante “pazienza del comprendere” e la “grazia del discernimento”, lavorando così attivamente per coltivare e incrementare il bene comune.
Così si può anche essere dei veri “contemporanei di Gesù”, che non ha mai cercato ammiratori, ma piuttosto imitatori. Il nucleo della sua persona, infatti, non è attingibile per via di conoscenze astratte, ma è conoscibile solo dal discepolo che segue le sue orme. In questa prospettiva, il libro di Carmelo Mezzasalma mi sembra espressione di una autentica voce profetica, che dal cuore del proprio tempo, riesce a far risuonare quella speranza che è la sostanza stessa di cui è fatta la nostra anima.

 

Bernardo Artusi
 
 

 

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